giovedì 11 luglio 2013

E poi dice che le donne non capiscono il calcio. (o anche) Un'altra simpatica metafora sul calcio.

- Ok, ok, OK! Adesso state tutti manzi!

Questi due sono due scemi pagliacci! Non capiscono niente ma niente, zero, nulla, puff.

- Tu stai ferma lì, e tieni il fazzoletto premuto che esce sangue. Tu pure, stai buono lì, che poi svieni che sei debole.

Questo sta in coma per giorni e decide di svegliarsi e tirare calci in faccia alla gente e poi sviene ancora ma poi si riprende. Guardali 'sti due... adulti. Perché non posso votare io? Voto meglio di questi due scemi coglioni deficienti una che spara alla gente perché gli stanno antipatici l'altro che si sveglia e dà calci, ma che adulti e adulti, poi votano Berlusconi e piangono che la vita è brutta, così dice mio padre almeno.

- Vi spiego ancora, poi basta eh? Lui è il numero 10, quello che deve tirare fuori le idee, tu sei il numero 9, quella che deve fare goal, o il numero 2, quella che deve difendere. Io sono il numero 8, quello che corre avanti e indietro e copre i buchi.

- Sì, e chi cazzo fa il portiere? E l'allenatore?

Questa non tiene mai la bocca chiusa come tutte le femmine.

- Vabbe' era per farvi capire non facciamo i precisini.

- Capire ho capito una cosa: quello lì...

Indica quello lì, il tizio che sembrava morto poi è vivo e ora deve fare quello che tira fuori le idee.

- ... quello lì dovrà pure farmi fare goal, ma lui non ci prova mai.

- Che c'entra? Lui fa segnare te! È altruista!

- Facile fare gli altruisti col culo degli altri. Chi non tira mai in porta non sbaglia mai.

Mi fa pensare un po' quello che dice 'sta qui.
Guardo il tizio numero 10.
Lui non guarda me, e non guarda lei.

Già già.
Niente applausi per chi non tira in porta.
Ma anche niente fischi.

martedì 2 luglio 2013

Pianoforte remoto

Suona, suona, suona lontano.
Suona, muove gli occhi immersi nel REM e suona.
La solidità dei tasti neri che affondano in quelli bianchi, quello scatto, i polpastrelli sull'avorio fresco, la mano che sale sui diesis, riscende sui bequadri, suona, suona lontano.
Rapidi movimenti degli occhi.
Che musica, fa male, strappata dal ventre, dall'inguine, dal cazzo, dalle tempie di ferro e dal buco del culo, che musica, quanto fa male.

Si gira nella solita pozza di vomito e pioggia.

Le mani sbattono nel liquido marcio, alzano schizzi di pus.

Ma che mu, ma che mu, ma che musica maestro di 'sto cazzo.

Si dibatte nella propria merda.
Rapidi.
Occhi.
Tasti.
Suona.

Un pianforte lontano.
Ma lo suona.

Si alza a sedere di scatto.
Vede la donna.
Quella che gli ha sparato via il cervello contro il muro.
Lei si accorge che è sveglio.
Sgrana gli occhi, non riesce a crederci che sia ancora vivo.
Si china per guardarlo meglio.
Lui le tira un calcio secco in faccia.

Schizzi di sangue nell'aria grigia e pesante, il rumore di un naso rotto, e poi del corpo della donna che sbatte sullla superficie incatramata del tetto piatto su cui si trovano.

Lui si gira.
Vede un bambino ammutolito dalla scena.

"E adesso che cazzo c'è ancora?"

Sente ancora se stesso che suona un pianforte che non c'è.

martedì 26 marzo 2013

Cosa? Non lo so.

Si chiede che cazzo ci sarà mai che non va.

Cammina, cammina un sacco.
In questo mondo disperso, disgregato, caduto a pezzi, camminare è l'unico modo che ha per tenere quel che rimane assieme.
Ma non rimane niente.
Non ha più una vita sua.
Aspetta che qualcuno gli dia l'amore che vuole, quella sensazione di caldo, rassicurazioni, attenzioni, "eccomi, ci sono per te, ti sto cagando", che bello, che felicità, tutto torna a posto, gli torna la voglia di fare quello che faceva prima.

Ma non c'è nessuno qui.
Solo una sfilza di bar nottturni.

Personaggi strani.

Guarda quella coppia, mentre beve il terzo boccale di questa strana bevanda che hanno in questo mondo disperso, qui la chiamano molals, ma sembra birra, molto forte, un boccale a stomaco vuoto e lui è già fuori.

Guarda quella coppia.
È sempre lì ogni notte. Vabbe', qui è sempre notte.
Lei è bruttina, un tailleur liso, rosellino sporco, una maglia a righe bianche e verdi sotto, un cappello color panna che non toglie mai, cicciottella. Lui magrissimo, cappello di feltro verde, capelli lunghi che spuntano da sotto, grigi, fuma un sigaro spento, una giacca a quadroni su una camicia gialla e jeans. La adora, la guarda mentre lei scrive le parole crociate e non lo caga di pezza, le parla anche, sottovoce, senza quasi mai che lei le risponda. Fino a quando lei sbotta, litigano. O meglio, lei lo aggredisce, gli dice di non rompere, lui sta zitto, guarda fisso davanti a sé, la lascia sbollire.
Poi inizia di nuovo come prima.

Il nostro eroe finisce la molals ed esce barcollando.
Guarda il cielo gonfio di pioggia e freddo.
E riprende a camminare.

E a piangere.
Lo sa che quando fa così i nanerottoli bastardi arrivano e iniziano a ramazzarlo di botte, calci e sputi.

Ma ha bisogno di piangere.
Che arrivino pure.

mercoledì 20 marzo 2013

Provo a tornare.

Il nostro eroe si sveglia e si chiede "e dove cazzo sono?".
Non lo sa, non capisce, ma non è nemmeno quel mondolontano dove non riusciva a svegliarsi mai.

Ci somiglia, è la stessa città, ma c'è gente.
Non è mondolontano.

Si stira in una pozza di piscio, gelata, ancora disteso e fradicio, gli fa male la gamba destra, nervo sciatico, non lo sa, "cazzo nervone sciatico, fa male, formicola tutto", si alza da quella, sta in piedi a malapena, batte il piede, gli fa sempre un male cane.

Tossisce, catarro, sputa un grumo marrò.
"Mi piace dire marrò."
Gli piaceva, ora non gli piace più niente.

Sta sempre male.
Qualsiasi cosa faccia non trova sollievo, è sempre triste, si sente sempre solo, anche se non lo è, anche se ha una donna che gli vuole bene, o che scopa con lui, e pensa che anche se avesse una donna che ama sarebbe lo stesso.
Solo, sempre solo.

Alza gli occhi da se stesso, finalmente si guarda in giro, è notte, la città puzza di umido e carne in putrefazione, merda stantia, e ovviamente piscio, molto piscio.
È notte.
Gli viene da piangere.

Proprio quando è lì che piagnucola girano l'angolo cinque omuncoli.

"Ma che cazzo?"

Urlano "AEEEEEEEEHHHH, OOOOO, AEEEEEEEHHHHHHAHHHHHH!", e corrono, veloci, gambe corte ma frenetiche, verso di lui.
Sono vestiti in modo elegante, panciotto e pantaloni intonati, camicia, chi farfallino, chi cravatta, e tutti in giacca, colori anche caldi, verdi, gialli, arancioni, ma sfumati, molto, molto eleganti "ma che cazzo?".

Le scarpe probabilmente in cuoio schiaffeggiano il marciapiede, e gli arrivano tutti e cinque addosso.

"Ma! Che! Cazzo!?!"

Calci, calci a ripetizioni, forti, negli stinchi, lui cade, e loro continuano, "AEEEEEEEHHHHH!!!", calci nello stomaco, nei reni, in faccia, nuca, collo, in bocca, forte, in bocca, nei denti, occhi, zigomi, glutei, ancora stomaco, ancora reni, nella schiena, nella schiena.

Poi corrono via.
Smettono di urlare, ridacchiano sommessi, e corrono via.

Ancora quel suono di schiaffi, e scompaiono dietro l'angolo da cui sono arrivati.

Il nostro eroe rimane a terra.
Il sapore di sangue, lacrime e acqua marcia mista a piscio, quella della pozza di prima, in cui si era svegliato.

Piange.
Sussulta.

"Ma dove cazzo sono finito?"

Non lo sa.
Continua a piangere.

martedì 15 gennaio 2013

Non so se è un arrivederci.

Ciao raga, qui non va tutto rego.
Non me la sento più di scrivere.
Se non di quello che mi capita.
E quello che mi capita, mh mh, non va tanto bene.

Quindi qui mi fermo.
Il protagonista di questa storia a puntate è in coma, nel mondo di sogno in cui è intrappolato, e forse è anche significativo, visto che inquilino0 sono praticamente io.

Non so se andrò avanti.
Non so se è un arrivederci.
Boh, vedremo.

Di sicuro voglio provare a scrivere, un altro blog, ora, di me stesso.
Ma non vi dico qual è, niente indirizzo. 
Troppo personale quello che devo scrivere.
Magari ci incapperete, chi lo sa.

Ma no, sicuramente no.

Arrivederci allora.
Credo.
Boh.

Vedremo!