Cielo basso, madido, inzuppa palpebre e sbadigli, e non ci vedo più bene.
Al canale giusto devi sintonizzarti, ma non riesco, mi sgancio, vago, me ne vado a occhi in su, cambio senza accorgermene, senza aria condizionata, giacchecravatta, gentechenonsiconosce... è meglio non guardarlo, questo canale qui, lo so.
Ma così capita, quando vedo luce tramontare su barbe sfatte, palazzi lucidi, e in fondo a un viale grigio candido, sento le mamme ancora in costume, i bambini e le maschere da sub, la polvere, i sassi bianchi...
Ma no, no, ma no, lo so che là c'è solo stazione Garibaldi, spifferi di povertà, sporco, vite invisibili, cambia canale, cambia, ritorna, torna tra loro.
Questo dolore nelle ossa, muscoli, pensieri, un fischio costante, dice che devi staccare, basta lavorare, ora dormi bel fiulett, fai la ninna.
Per quello ho sabbia agli angoli degli occhi, tra dita di piedi, corro che scotta, ma no, no, ma no... sono sul marciapiede, guarda, lì c'è una bella merda di cane, poi mozziconi di sigarette, truppa sbarcata da posacenere d’auto, via!, rompere le righe!, nessuna sabbia, da nessuna parte... nella tua vita, da nessuna parte c'è il mare, cambia, torna di qui.
Nemmeno di notte, quando ondeggia solitudine, finestre ancora accese, semafori che parlano al vuoto, toglie peso alle tempie, nemmeno di notte c’è il mare, in questa città così stanca, stesa sul fianco, che sviene, e nessuno in giro, nessuno, dove vuoi andare, ritorna.
Deve essere per quello, sì.
Non riesco a tornare.
Bene.
Se non ci riesci, allora vai.
Un passo dopo l’altro, così, risacca scura che bagna caviglie, poi ginocchia, e son dentro, fin al torace.
Continuo?
Eh sì.
Vado, per forza, io vado.
Senza voltarmi, nemmeno un saluto.
Dentro, mi immergo.
Fino al collo.
Perché c'è.
Questo mare.
Là in fondo, a fine discesa, tra piazze, zingari e binari del tram.
Croste d'asfalto, parchi vuoti e platani secchi.
C’è.
Non mi volto, no, no.
Continuo.
Son sotto.
Scompaio.
Di nero ora brillo.
Affanculo anche Agosto.